L’altro giorno stavo debuggando un’applicazione Java quando mi sono fermato a guardare l’header di un file .class. Lì, come sempre da quasi trent’anni, c’era lui: CA FE BA BE.
Il magic number più famoso della programmazione, la firma che identifica miliardi di file compilati in tutto il mondo.
Ma stavolta, per qualche motivo, l’ho letto diversamente. E mi sono chiesto: come percepiremmo oggi questa scelta se fosse stata fatta nel 2024 invece che nel 1995?
Per capire CAFEBABE bisogna tornare agli anni ’90, quando l’industria del software era ancora giovane, giocosa e piena di ironia nerd. Era l’epoca d’oro dell’hexspeak: DEADBEEF, FEEDFACE, BAADF00D… tag digitali, piccole firme spiritose lasciate nei meandri del codice.
Quando il team di Sun Microsystems dovette scegliere un identificativo per i file Java, optò per CAFEBABE. James Gosling ha sempre raccontato che fu una scelta goliardica: un mix tra la loro dipendenza dal caffè (“CAFE”) e il tono scherzoso dell’epoca (“BABE”). Nessun secondo fine: solo il piacere nerd di lasciare un’impronta personale in quello che sarebbe diventato uno standard mondiale.
Nel 1995 nessuno ci vedeva problemi. Era un gioco in esadecimale, innocuo come tutti gli altri.
Ma il mondo cambia, e con esso il modo in cui leggiamo i simboli.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una riflessione profonda sul linguaggio tecnico. GitHub ha cambiato “master” in “main”, eliminando terminologie che potevano evocare il binomio master/slave. Altri progetti hanno seguito l’esempio: un’intera industria ha iniziato a riconsiderare il proprio vocabolario.
In questo clima culturale, mi sono ritrovato a guardare CAFEBABE con occhi diversi. Se oggi chiamare una donna “babe” è considerato paternalistico, se stiamo attenti a ogni sfumatura del linguaggio inclusivo… come leggiamo questo residuo degli anni ’90?
Non fraintendetemi: non sto dicendo che CAFEBABE sia problematico. Ma la riflessione è interessante.
Vediamo i fatti.
Nel 1995, il termine non si riferiva a nessuna persona reale: era solo una sequenza di byte che formava una parola riconoscibile, parte di una cultura hacker che trasformava il codice in un playground creativo.
E oggi?
La stragrande maggioranza degli sviluppatori non pensa alla parola inglese “babe” guardando 0xCAFEBABE.
È diventato un simbolo tecnico neutro, riconoscibile quanto il logo di Java.
Di fatto, è il “Made in Java” di miliardi di file.
E modificarlo? Sarebbe un disastro tecnico: rompere trent’anni di retrocompatibilità per un problema che esiste più nella teoria che nella pratica.
Ecco il gioco mentale che mi ha catturato: se Java nascesse oggi, con la nostra sensibilità culturale attuale, quale magic number sceglieremmo?
Dovrebbe mantenere lo spirito originale — il caffè è parte del DNA di Java — ma con un tocco più moderno. Dopo un po’ di riflessione, la mia proposta è:
Perché funziona:
Questa piccola riflessione mi ha ricordato una cosa importante: la tecnologia non vive fuori dal tempo. Ogni scelta progettuale, anche la più tecnica, porta con sé un frammento della cultura che l’ha generata.
Il passaggio da master a main non ha risolto il razzismo sistemico, ma ha mandato un segnale: siamo disposti a rivedere anche i dettagli più consolidati se questo può contribuire a un ambiente più accogliente. Una dichiarazione di intenti culturali travestita da scelta tecnica.
La differenza con CAFEBABE è che rimane, nella percezione quotidiana, sostanzialmente neutro. Ma immaginare alternative ci aiuta a capire come i nostri valori si riflettano nelle scelte tecniche, anche quelle apparentemente insignificanti.
L’informatica di oggi è più attenta, più globale, più consapevole rispetto a quella degli anni ’90. Non perché quella di ieri fosse “sbagliata”, ma perché abbiamo imparato che:
Ogni riga di codice racconta una storia culturale. I nomi delle variabili, i commenti, perfino i magic number sono archeologia digitale: stratificazioni di epoche, valori, sensibilità diverse.
CAFEBABE continuerà a essere CAFEBABE, e va benissimo così: è parte della nostra storia. Ma riflettere su come lo percepiamo oggi — e immaginare cosa sceglieremmo al suo posto — ci ricorda che programmare non è solo risolvere problemi tecnici.
È anche decidere che tipo di mondo digitale vogliamo costruire, un simbolo alla volta.