Negli anni ’70 e ’80, nelle cantine, nei garage e nei laboratori universitari nascevano le prime comunità di appassionati di informatica. Gli user group comparvero già ai tempi dei mainframe: spazi dove gli utenti condividevano conoscenze faticosamente acquisite e software scritto da loro stessi, spesso più utile e immediato di quello fornito dai vendor. Era un mondo genuino, fatto di collaborazione spontanea e passione pura.
Con la rivoluzione dei microcomputer tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, gli user group si moltiplicarono. Hobbisti e curiosi si incontravano per programmare, configurare, scambiarsi consigli. Era l’essenza della cultura hacker originaria: conoscenza libera, supporto reciproco, voglia di imparare insieme.
In Italia come altrove, questi gruppi erano ambienti democratici: un programmatore navigato poteva sedersi accanto a uno studente alle prime armi, uniti dalla stessa curiosità. Il celebre Homebrew Computer Club, dove nacque l’Apple I, è solo il più famoso di una lunga serie di esperienze simili. Nessuno sponsor, nessun tornaconto commerciale: solo comunità autentiche.
Con l’arrivo di Internet e, poi, dei social media, il panorama iniziò a cambiare. Facebook, MySpace e le piattaforme della prima Web 2.0 ridefinirono l’idea di “gruppo”, integrando relazioni personali e spazi tematici. Ma il vero punto di svolta fu l’ingresso aggressivo delle grandi aziende tech.
Amazon, Microsoft, Google e molte altre intravidero nella comunità un’occasione strategica. Invece di sostenere i gruppi preesistenti, iniziarono a crearne di propri. Nacquero così gli AWS User Groups, i Google Developer Groups, i Microsoft User Groups: tutti presentati come “guidati dalla comunità”, ma pesantemente brandizzati.
Oggi ogni big tech ha il suo user group ufficiale, spesso in ogni città del mondo. Il modello è sempre lo stesso: pizza gratis, location di pregio, relatori selezionati, un’atmosfera da “community”, ma con obiettivi ben precisi: lead generation, recruitment, marketing.
Negli anni 2010, i meetup tecnologici sono esplosi nelle grandi città, spesso somigliando più a piccoli eventi aziendali che a incontri spontanei tra appassionati. Era l’epoca d’oro del venture capital: ogni startup doveva costruirsi una community per legittimarsi, anche se quella community era più un involucro che una realtà viva.
Con il consolidamento delle piattaforme social, molte micro-comunità sono semplicemente scomparse. Facebook e Twitter hanno assorbito le conversazioni, centralizzando funzioni che un tempo appartenevano a forum e gruppi locali. Le comunità nate dal basso non potevano competere con i budget delle corporazioni né con l’attrattiva dei grandi nomi.
La situazione è stata aggravata da mutamenti politici ed economici che hanno trasformato Internet: la fine della net neutrality negli USA, il Grande Firewall cinese, l’ingerenza geopolitica nelle piattaforme social. L’Internet libertaria degli inizi si è progressivamente trasformata in un ecosistema dominato dai colossi tecnologici.
Poi è arrivata la pandemia. Un anno di isolamento ha decimato la cultura dei meetup. Molti gruppi storici, già indeboliti, hanno chiuso definitivamente. Dopo quasi 25 anni di attività, diversi user group sono scomparsi proprio in quel periodo.
Oggi la mappa degli user group sembra una cartina politica: AWS qui, Google là, Microsoft un po’ ovunque. Nel mondo ce ne sono più di 400. Ma cosa rappresentano davvero? Comunità indipendenti o semplici estensioni periferiche dei reparti marketing?
Il format è identico ovunque: aperitivo, presentazione aziendale, talk tecnico (quasi sempre promozionale), gadget finali. Ma dove sono finite le discussioni spontanee, le sperimentazioni, l’apprendimento condiviso? Dov’è finita la creatività delle origini?
Non si può negare che oggi l’accesso alla tecnologia sia immensamente più facile rispetto agli anni ’80. Ma qualcosa lo abbiamo perso: il senso di appartenenza, la curiosità disinteressata, la costruzione di legami autentici.
Molti gruppi locali nascono con entusiasmo e scompaiono dopo pochi incontri. La differenza, come sempre, la fa la continuità: restare, insistere, incontrarsi anche quando si è in pochi.
Gli user group possono rinascere, ma serve una nuova visione. Una visione che superi la semplice discussione tecnica e ri-collochi la tecnologia nel suo contesto sociale.
Gli user group del futuro potrebbero:
La tecnologia non è neutra. Ogni applicazione, ogni algoritmo, ogni sistema produce effetti sociali reali. Ignorarlo significa rinunciare a una responsabilità fondamentale.
I nuovi user group dovranno esserne consapevoli. Non possiamo più permetterci di creare software “innocentemente”.
La morte degli user group tradizionali può essere un punto di arrivo, ma anche un punto di ripartenza. Possiamo costruire qualcosa di nuovo, più autentico e più coraggioso. Ma dobbiamo volerlo: mattone dopo mattone, riga di codice dopo riga di codice, relazione dopo relazione.
Le comunità tech non devono essere strumenti di marketing. Devono essere luoghi umani, creativi, utili alla società.
La tecnologia è troppo importante per lasciarla solo alle corporazioni. È tempo di riprendercela. È tempo di ricominciare.
Se credi che le comunità tecnologiche possano tornare ad essere luoghi autentici, inizia oggi. Trova altre persone come te. Inizia in piccolo. Pensa in grande. Il futuro degli user group dipende da noi.