Questo non è un post da scrollare tra una notifica e l’altra.
È un testo lungo, denso, costruito per chi ha voglia di fermarsi e mettere in discussione alcune certezze che ci portiamo dietro sull’imprenditorialità. Non troverai motivazione da LinkedIn né liste di “5 step per scalare il tuo business”. Troverai invece una critica ragionata al modo in cui abbiamo trasformato la figura dell’imprenditore: da qualcuno che estrae valore dal lavoro altrui a una sorta di mago moderno che trasforma problemi in “macchine da soldi”.
Io credo che questa narrativa sia pericolosa. E credo che gli informatici — proprio per come pensano e lavorano — siano tra le vittime più inconsapevoli di questa trappola.
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Iniziamo dall’inizio, dal momento in cui un professionista comincia a “funzionare sul serio”.
Le persone ti cercano. Ti chiedono consigli. Non riescono a risolvere problemi senza passare da te. In quel momento, ti senti indispensabile — e quella sensazione è inebriante. È la conferma che il tuo valore è reale, misurabile, riconosciuto.
Ma è proprio qui che si innesca il primo errore logico:
Confondere la centralità operativa con il valore strategico.
Quando dici “senza di me l’azienda si ferma”, non stai descrivendo quanto vali. Stai descrivendo quanto il sistema è fragile.
In termini di ingegneria: sei un single point of failure, non un asset. Un sistema ben progettato non collassa se una singola componente smette di funzionare. Se invece tutto dipende da te, non hai costruito un’azienda — hai costruito una dipendenza strutturale.
Il problema è che questa dipendenza ci piace. Ci fa sentire importanti. È una forma sottile di narcisismo funzionale: l’ego si nutre della propria indispensabilità. Ma mentre tu ti senti valorizzato, il sistema soffoca. Il team smette di crescere perché tanto “decide Francesco”. I processi non si consolidano perché “Francesco sa come si fa”. La tua vita personale svanisce perché “Francesco deve esserci”.
Il risultato? Tu diventi il collo di bottiglia che impedisce a tutto il resto di respirare.
L’antidoto esiste, ed è scomodo: i processi. Non quelli burocratici e inutili, ma quelli che codificano il sapere in modo che possa vivere al di fuori della tua testa. I processi non ti tolgono importanza — la distribuiscono nel sistema, rendendolo più forte insieme a te.
Ma per arrivarci devi fare una cosa difficile: accettare che essere sostituibile non significa essere irrilevante.
Superato il primo livello — o meglio, aggirato senza risolverlo — molti professionisti passano alla fase successiva: l’auto-promozione artigianale.
Aprono una partita IVA forfettaria. Poi una S.r.l. Poi magari si definiscono “founder” di una micro-startup. Cambiano i contenitori giuridici, aggiornano il profilo LinkedIn, parlano di “scalare il business”. Ma la sostanza resta identica:
Continuano a vendere ore della propria competenza, solo con una forma più elegante.
Questa è la trappola più insidiosa perché sembra crescita. Hai un’azienda, hai dipendenti (forse), hai una struttura. Ma se ti assenti una settimana, tutto si blocca. Perché? Perché tu sei ancora l’esecutore principale. Hai solo aggiunto burocrazia intorno al tuo fare.
Non sei diventato imprenditore. Sei diventato un artigiano con un amministratore commercialista.
L’errore profondo qui è confondere due cose diverse:
Il primo è autosufficienza individuale. Il secondo è progettazione di auto-organizzazione. Sono agli antipodi.
Un vero imprenditore non “fa meglio” il lavoro: lo distribuisce. Non lavora dentro il processo, lavora sul processo. Osserva dall’alto, interviene dove necessario, ma non è mai il centro operativo.
Se la tua assenza causa il panico, non hai fondato un’impresa — hai fondato una versione più costosa del tuo vecchio lavoro dipendente, solo che stavolta il capo sei tu e ti sfrutti da solo.
Ed eccoci al livello più profondo e pericoloso — quello che riguarda direttamente chi, come noi, pensa in termini di sistemi, funzioni, algoritmi.
Gli informatici hanno una mentalità fortemente orientata all’automazione. Dove c’è un problema ripetitivo, scriviamo una funzione. Dove serve efficienza, eliminiamo la ridondanza. Dove c’è complessità manuale, costruiamo un’astrazione che la gestisca per noi.
Questo approccio è potente. Ma quando lo trasli nel mondo reale dell’imprenditoria senza equilibrio, diventa una distorsione cognitiva pericolosa.
Gli informatici cadono in tre trappole cognitive:
Una funzione che esegue un compito non è un collega. Non pensa. Non impara. Non ti dice “guarda che qui c’è un problema che non hai previsto”. Non cresce professionalmente. Non costruisce fiducia.
Automatizzare è esternalizzare il lavoro nel codice, ma delegare è distribuire responsabilità tra entità autonome. La delega implica fiducia, comunicazione, crescita condivisa. L’automazione è solo ripetizione cieca di un pattern che hai codificato tu.
Quando un informatico fonda un’azienda, tende a pensare: “Scrivo il sistema perfetto e poi scala da solo”. Ma dimentica che l’azienda non è il software — è l’ecosistema umano che lo usa, lo vende, lo mantiene, lo fa evolvere.
Un software ben scritto scala senza costi marginali. Mille utenti o un milione: il codice fa il suo lavoro.
Ma un’azienda non funziona così. Più persone = più complessità relazionale. Più progetti = più necessità di coordinamento. Più clienti = più variabilità nei bisogni.
La complessità non scompare quando automatizzi: si sposta. Dal codice alle persone. E le persone sono infinitamente più complesse da “debuggare”.
Gli informatici sottovalutano questo aspetto perché sono abituati a pensare in termini di purezza logica. Ma un’organizzazione umana non è logica: è politica, emotiva, culturale, contraddittoria.
Il programmatore brillante pensa: “Se faccio un prodotto eccellente, il resto viene da sé.”
Sbagliato.
Il valore di un’azienda non nasce dalla qualità del codice. Nasce dall’ecosistema di fiducia, linguaggi condivisi, incentivi allineati e relazioni stabili che permettono a quel codice di diventare valore economico.
Puoi avere il miglior software del mondo. Ma se non sai venderlo, comunicarlo, costruire una rete di relazioni intorno, posizionarlo nel mercato, non hai un’impresa — hai un hobby costoso.
Mettendo insieme questi tre bias, ecco cosa succede a molti sviluppatori di talento:
La cosa tragica? Quando falliscono, spesso si incolpano per le ragioni sbagliate:
Tutte spiegazioni esterne. Ma il problema è più profondo: hanno creduto di poter sostituire le persone con il codice, quando in realtà serviva costruire un sistema ibrido — umano e tecnico — in cui la loro competenza fosse diffusa, non concentrata.
Hanno automatizzato la propria trappola.
Tutto questo avviene dentro un contesto culturale che ha completamente mitizzato la figura dell’imprenditore.
Un tempo l’imprenditore era visto per quello che era: qualcuno che estrae valore dal lavoro altrui, organizza la produzione, assume il rischio economico, e lucra sulla differenza tra costi e ricavi.
Oggi invece è diventato un deus ex machina moderno: il visionario che trasforma tutto ciò che tocca in oro. Il problem solver che risolve crisi globali con una slide PowerPoint, un pitch deck e un round di finanziamento. L’eroe della disruption che “cambia il mondo” mentre fattura milioni.
Questa narrazione è pericolosa per due motivi:
Nasconde la realtà del lavoro imprenditoriale, che è fatto di coordinamento, responsabilità, costruzione paziente di relazioni, gestione dell’incertezza — non di colpi di genio e crescite esponenziali.
Seduce i professionisti tecnici facendogli credere che basti essere bravi in qualcosa per “meritare” di diventare imprenditori, quando in realtà sono due mestieri completamente diversi.
L’imprenditorialità vera non è magia. È ingegneria delle interdipendenze. È progettare sistemi che producono valore collettivo in modo sostenibile, replicabile, umano. Non necessariamente attraverso le persone, non necessariamente attraverso il codice — ma sempre attraverso un equilibrio di potere, responsabilità e fiducia distribuita.
L’autoimprenditorialità è una trappola perché ti illude di aver conquistato la libertà, mentre in realtà hai solo spostato la gabbia dentro la tua testa.
Ricapitoliamo:
La vera imprenditorialità non è smettere di lavorare. È costruire sistemi che lavorano insieme a te, anche quando non ci sei.
È il passaggio dalla mano che scrive il codice alla mente che progetta le condizioni perché altri — umani o digitali — possano cooperare autonomamente.
Finché non capiamo questo, continueremo a confondere:
Se la tua azienda dovesse funzionare per un mese senza che tu possa intervenire — nemmeno per una chiamata o una mail — cosa succederebbe?
Se la risposta ti spaventa, forse non hai un’azienda.
Forse hai un lavoro dipendente in cui il tuo capo sei tu, e ti paghi uno stipendio variabile che chiami “fatturato”.
Non c’è niente di sbagliato in questo. Ma chiamiamolo con il suo nome.
E se invece vuoi davvero costruire qualcosa che possa vivere oltre te, inizia a chiederti:
“Cosa sto facendo oggi che solo io posso fare? E come posso fare in modo che domani non sia più così?”
Quella è la domanda dell’imprenditore vero.
Il resto è solo ego travestito da ambizione.
Se questo testo ti ha fatto riflettere — o arrabbiare, o mettere in discussione qualcosa — condividilo. Non per farmi pubblicità, ma perché credo che serva un antidoto alla retorica motivazionale che ci sta vendendo una versione edulcorata e pericolosa dell’imprenditorialità.
E se sei un informatico che sta pensando di “fare il salto”, riflettici bene. Il codice è necessario, ma non sufficiente. La vera domanda è: sei pronto a costruire sistemi umani, non solo sistemi software?